“….. Ah… la mazurca/ che ballava la mia nonna/ con le trecce a penzoloni/ con i mutandoni/ sotto la sua gonna./ Quando mio nonno,/ per baciare la sua mano/ non usava la scaletta, /a la bicicletta/ ino al primo piano…” è il ritornello di una canzone popolare fox trot scritta da Bixio Cherubini e musicata da Armando Fragna.
Aveva spopolato negli anni sessanta, alludendo al periodo storico “ di bel tempo assai lontano, quando prima di sposarsi stavano a guardarsi con le mani in mano “ e la mutanda, era diventata il mito di quegli anni, la conquista vera e propria di un indumento ignorato fino al cinquecento e dalla storia complessa. Qualche anno prima Camillo Mastrocinque, aveva inserito le mutande nel film Totò a Milano, di cui si ricorda la scena comica e le parole che accompagnavano il gesto di Totò “ mutande e pane” mentre toglieva dalla valigia gli alimenti e gli indumenti utili per il soggiorno a Milano.
Le mutande, questa sconosciute, appaiono collegando necessità e voluttà negli anni settanta, destando malizia e curiosità. «Le ha o non le ha?». Una domanda in apparenza innocua. A meno che non si parli di una bella donna ed è facile classificare la discussione e capire dove si vuole arrivare.
Durante il periodo longobardo, le mutande erano anche note come femoralia. Paolo Diacono scrive di Alahis, duca di Trento, che a un diacono che gli domandava udienza per trasmettergli un’ambasciata dall’arcivescovo, faceva rispondere che poteva essere ammesso solo se «si munda femoralia habet» (se ha/porta le mutande)
Gli antichi Romani non le portavano. Per fare attività fisica e come costume da bagno usavano le subligatula (da subligare, cioè legare sotto), un pezzo di stoffa con un capo che cingeva la vita e l’altro che passava in mezzo alle gambe
E i Greci non si ponevano neppure il problema di coprire le parti intime, indossavano la tunica, ma sotto le donne erano nude mentre gli uomini, a volte, indossavano un perizoma.
l termine mutanda, che deriva dal latino medievale mutare, che significa “ciò che si deve cambiare”. Mutatis muandis, nasce nel Medioevo. Lo storico dei costumi Luciano Spadanuda, nel suo libro “ Storia delle mutande”, racconta che la svolta avvenne nel ’500, con Caterina de’ Medici, moglie di re Enrico II di Francia che introducendo un modo originale di cavalcare, con il piede sinistro nella staffa e la gamba destra orizzontale sull’arcione introdusse l’uso di mutande strette e attillate di cotone o fustagno. L’indumento, era chiamato “briglie da culo”, prese subito piede tra le nobildonne di Francia e degli ambienti nobiliari europei, ma degenerò altrettanto in fretta in forme così lussuose e stravaganti in tessuti d’oro e d’argento, assumendo le caratteristiche di un indumento peccaminoso e di lussuria.
Le mutande entrano nella storia dell’arte e in modo particolare nel Giudizio universale di Michelangelo, con Daniele da Volterra incaricato da papa Paolo IV a coprire le nudità dell’affresco del suo maestro, giudicate dalla Controriforma assolutamente oscene. Visitando i musei vaticani e la Cappella Sistina, tra i particolari dell’affresco dietro l’altare, non si può non osservare San Biagio e Santa Caterina, completamente vestiti e in posizione diversa da quella raffigurata da Michelangelo che li aveva dipinti nudi e posti rispettivamente l’una di spalle all’altro. Ora la Santa è vestita di verde verde. La testa, le braccia e la ruota del martirio è quel che rimane di Michelangelo. San Biagio è stato totalmente rifatto. Ora non è più piegato sulla Santa ma è volto verso Cristo.
Sul fronte femminile, gli anni ’90 hanno visto il boom delle vendite perizomi e tanga definiti che termini di misura del materiale per la confezione che va da un tessuto di 21 x 25 cm per un perizoma contro i cm 62 x 44 cm, cioè circa 5 volte in più per una mutanda.
Gli anni ’90 sono anche quelli degli eccessi: dagli Usa arrivano gli slip che si possono mangiare, aromatizzati in vari gusti.
Il Giappone nel 1993 fu invece costretto a varare una legge che impedisse di vendere in distributori automatici per strada gli slip usati delle studentesse. Qui almeno due giorni all’anno può capitare di trovare gente in mutande sulla metropolitana. Il primo è a gennaio, in occasione del No pants Subway Ride, un’iniziativa stravagante promossa dagli amanti del metrò. Il secondo è il No Pants Day, la festa senza pantaloni, celebrata in vari Paesi il primo venerdì di maggio. Ma forse la mutanda meritava una degna collocazione, e per questo nel 2009 è nato a Bruxelles in rue Haute n.123 un museo della mutanda . L’idea è dell’ artista belga Jan Bucquoy ha raccolto e messo in cornice una dozzina di slip appartenenti a personaggi belgi di rilievo.
Ma quando un paio di anni fa si è parlato di un analogo museo a San Marino, la proposta è affondata nelle polemiche. Dall’ episodio della Cappella Sistina e della controriforma che ha mandato alla distruzione diverse opere d’arte, discendono, molto probabilmente alcuni modi dire usati ancora oggi per indicare una persona che è andata in rovina quali: “ rimanere in mutande” oppure come nel nord Italia, “ rimanere in braghe di tela”.
Queste espressioni sono la diretta conseguenza di una condanna che veniva inflitta a chi non era in grado di pagare i propri debiti. Si trattava di una sorta di berlina, di espiazione pubblica, che in alcune parti d’Italia sostituiva con la detenzione e varie punizioni . Tra queste l’usanza di portare il colpevole nella piazza pubblica, vestito solo di un paio di braghe, da cui deriva l’espressione “restare in mutande”
Una visita in alcuni paesi dell’Abruzzo ci permette di vedere la famose i “pietre del vituperio”.
A Pescocostanzo (Aq), ai piedi della scalinata che conduce alla Basilica di Santa Maria del Colle, si trova una di queste “pietre”, di forma cilindrica alta circa 80 centimetri e del diametro di 70 centimetri. Il debitore doveva restare seduto sulla pietra per un certo periodo di tempo esposto al pubblico ludibrio, senza dover recitare alcuna formula. Dopo una bella sosta e un pranzo con un piatto di pasta alla chitarra per rinfrancarsi un p’, si può raggiungere Tagliacozzo.
Qui la pietra del vituperio era chiamata “pilozzo” ed era un sedile con un foro al centro. Nel 1825 venne sostituita da una fontana a forma di obelisco. (dal sito: www.festivaldelmedioevo.it) A Pacentro, sempre nel Parco Nazionale della Maiella, si trova il seicentesco Palazzo Tonno, da cui prende nome la “preta tonna”, dette tummarole, o “pietra dello scandalo”, una grossa pietra incavata, utilizzata come unità di misura del grano, sulla quale chi non onorava i propri debiti veniva obbligato a sedersi in mutande ed esposto allo scherno.
Nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, in piena estate mentre i bichini si esibivano in spiaggia, nel cuore della Sicilia un archeologo scopriva che il due pezzi risaliva addirittura al tempo degli antichi romani. Gino Vinicio Gentili e aveva iniziato a scavare nella campagna a una trentina di chilometri da Enna e a pochi minuti da Piazza Armerina, in un sito detto Casale riportando alla luce una sontuosa villa, risalente a trecento anni dopo Cristo, dotata di un impianto termale e decorata con splendidi mosaici per i quali, nel 1997, è stata riconosciuta dall’Unesco patrimonio dell’umanità.
Tra questi mosaici ne apparve uno con dieci ragazze in bikini ovvero in subligar, come si chiamava allora la mutandina, e la fascia mamillare, detta anche strophium, che ne ricopriva il petto.
Fernanda Pugliese