Ferrovia equivale a l’infrastruttura di trasporto terrestre idonea alla circolazione dei treni. In Molise, tale significato è offuscato dalla chiusura in ogni ordine e grado di tutte le strade ferrate, tranne la linea adriatica, anch’essa malmessa nel tratto Termoli-Lesina. Un deficit che grazie alla fantomatica “Metropolitana leggera”, ha acquisito il record della “novella” che ancora non riesce a definirsi tra quelle “buone”.
La tratta Venafro/Campobasso, ormai chiusa da anni per la sua elettrificazione esprime inequivocabilmente un dato: in non godere di certezze e di una giusta e concreta progettualità temporale. Da anni si parla di termini in senso di datazioni, che vengono smentiti senza appello e determinano solo speranza nel e per pensare ad un imminente colpo di scena. Un colpo di scena che traspare dal sognare i soffi di un amplificato fischio, unico attrattore al passaggio di carrozze elettrificate, dal concetto moderno di mobilità su ferro.
La speranza è sempre l’ultima a morire e allora, nel farsi un giro tra le stazioni poste a sentinella sulla tratta Venafro/Campobasso, qualcosa si muove, seppur a rilento. Siamo a Bojano, centro nevralgico della ormai fantozziana “Metropolitana Leggera”. Una Bojano che aspetta i suoi treni al cospetto di un piazzale stazione che è diventato l’attrazione giornaliera per arrivo e partenza di carrozze su ruote di gomma che offrono sempre meno confort e spazi di libertà che solo il treno può condurre all’esercizio. In dialetto bojanese, molti tra i fruitori del trasporto pubblico, ogni giorno proferiscono la frase : “ Aspett e spere ma lu tiemp è semp chiù luntan”.
Degna sintesi, questa, di un concetto che fa del provvisorio una costante nel tempo. “Eppur si muove” , frase che Galileo, seppur non confermata da documenti, ebbe a dire alludendo alla Terra, dopo essere stato costretto ad abiurare le sue dottrine cosmografiche, nel non dover abiurare un bel niente ma nel solo constatare che mezzi ferrati da lavoro sono in transito nel tratto San Massimo/Bojano, si ritiene che quella speranza decantata, davvero sia l’ultima a morire.
La stazione è tornata ad essere un cantiere, terminati i lavori del discutibile sovrappasso che appare una ferraglia anni di piombo, senza uno stile, piena di contraddizioni e decisamente poco attraente, di una pavimentazione già logorata dal tempo ancor prima del suo utilizzo, dai cartelli divelti e dalla poca funzionale attrattiva ad essere, come dovrebbe, la stazione un punto di aggregazione.
Un cantiere che vede la posa in opera di palificazioni atte al sostegno della linea elettrica, fondazioni ed ancoraggi che aspirano a rendersi utili affinché i treni futuri siano rispettosi di ambiente e sostenibilità in termini di comodità. Un cantiere che non vede cartelli, se non quelli dell’inizio dei lavori di qualche anno addietro e che manifesta una certezza: aspettare a volte ti pone difronte l’accettare qualsiasi compromesso purché sia condizionato al meglio.
E’ chiaro che lo scetticismo, visto il “successo” della metropolitana leggera, è d’obbligo, che le risposte non concrete di perché un soprappasso indecente, di dove siano finite le pietre di delimitazione dei vecchi marciapiedi, di perché la Soprintendenza a volte chiude gli occhi per opere irrimediabilmente impattanti e spesso si mette gli occhiali per modifiche irrilevanti a facciate di fabbricati ormai esempio di costruzioni senza cognizione di integrazione paesaggistica, non soddisfano i più esigenti di risposte, ma se qualcosa si muove, forse l’alba di un giorno addivenire, non potrà che farci tornare a sperare nel rivedere i finestrini appannati dal vapore del calorifero nei mesi invernali, gli stessi che ci hanno visto salutare amici e parenti in partenze non sempre volute.
Il suono del treno è come quello delle campane, fa festa e dimostra la vitalità di un paese che non si arrende alla politica del non fare, alla condizione di area interna e quindi destinata allo spopolamento, al ritorno di un tempo che vedeva le stazioni piene di giovani seduti ad un bar che si spera torni a aprire i suoi battenti chiusi per la visione di una modernità che non attrae più ma che allontana dall’essere poeti e sognatori.
Forse anche con questo articolo siamo al concetto di sana follia ma, sognare fa bene e soprattutto, rende felici. Aspettiamo ancora nell’ esplodere di gioia poiché ancora occorre speranza, quella che dopo le stazioni e l’elettrificazione, faccia da contorno all’arrivo dei treni di cui ancora non si ha certezza.
Maurizio Varriano